Akira Zakamoto

Luca Motolese in arte Akira Zakamoto è nato nel 1974 a Torino, vive e lavora fra Torino e Milano.
Ha frequentato (senza particolare costanza) l'IPS Albe Steiner di Torino, l'Université Stendhal di Grenoble e il Dams di Torino.
Ha prestato i suoi lavori alla pubblicità e al cinema lavorando come art director e regista.
Ha fondato nel 2007 Bottega Indaco con Ciro palumbo e Arte Indaco nel 2008.
Fa parte del CDA di Progetto Indaco nell vesti di presidente del comitato Arte.

Hanno contribuito alla crescita umana e artistica di Zakamoto (in ordine di apparizione): Franca Patrucco, Sergio Motolese, Barbara Motolese, Anna Stevanin, Nicola Motolese, Maria Teresa Ossola, Aldo Maggiolo, Andrea Maggiolo, Elena Maggiolo, Adriano Attanasio, Elvira Panier, Roberto Savino, Giancarlo Povero, Anna Lequio, Roberto Magliano, Joseph Corbò, Antonio Nunziante, Ciro Palumbo, Salvatore Zito, Francesca Miglio, Mattia Motolese, Samadhi Mattaliano, Bodhi Anugrah, Valeria Boati, Emiliano Pilone, Claudia Parrini, Chloè Motolese, Chiara Manganelli, Francesca Bogliolo, Simona Vanetti.
Hanno scritto e si sono interessati all'opera di Akira Zakamoto i critici: Paolo Levi, Stefania Bison, Alberto D'atanasio, Vincenzo Dalle Luche, Stefania Bison Chiara Manganelli, Francesca Bogliolo, Elisa Basso, Fabio Carnaghi, Carlo Gavazzi, Nicola Davide Angerame, Andrea Diprè, Rosanna dell'Utri.
Si sono occupati del lavoro di Akira Zakamoto gli organi di informazione: La Stampa, La Sesia, Corriere dell'Arte, Effetto Arte, Genitori channel, La Repubblica, Bari sera, Sette giorni, Studenti.it, Torino City life, l'Ancora, Art&Art, Oltre confine, Giornale dell'arte, Spazio, Miele, Grazia, Effetto Arte, Radio DGvoice.
Riconoscimenti
Selezionato tra i vincitori del premio internazionale B.ART – bando internazionale di arte pubblica promosso dalla Città di Torino.
Selezionato alla 2° Biennale internazionale d'arte di Palermo.
Zakamoto ha esposto presso gallerie e musei nelle maggiori città.

STEFANIA BISON
Dalle CENERI del PASSATO le RISORSE del FUTURO
Akira Zakamoto. Polo industriale di Porto Marghera. È emblematico lo scenario individuato dal pittore torinese per le tele realizzate per questa mostra. Una scelta non casuale – pregnante di significati profondi – che lascia ben poco spazio a dubbi interpretativi. La nascita e lo sviluppo di Porto Marghera risale al 1917, quando l’imprenditore veneziano Volpi ottenne dal ministero dei lavori pubblici la gestione finanziaria del progetto per la realizzazione del porto industriale. Nel giro di cinquant’anni la zona industriale si triplica, e da una produzione inerente la cantieristica navale diventa centro propulsore del settore petrolchimico. Il boom economico incrementa la produzione, e insieme a essa si moltiplicano i problemi relativi all’inquinamento atmosferico, delle acque lagunari e le serie e documentate conseguenze sulla salute dei lavoratori. Teatro di grandi fusioni aziendali, battaglie e contestazioni sindacali, con la crisi del settore petrolchimico Marghera inizia a ripiegarsi nuovamente su se stessa. Progressivamente le fabbriche vengono abbandonate, in attesa di un progetto di riqualificazione e bonifica della zona. Ed è proprio in questo momento che, sotto cieli plumbei saturi di inquinamento e dietro minacciose colonne di fumo, arrivano a grandi passi i bambini di Zakamoto. Dimentichiamoci gli amorini biondi dell’iconografia del passato, perché quelli di Akira non sono bambini qualsiasi. Sono giganti, e non solo nella statura, che con il loro sguardo ora severo ora minaccioso, distruggono ciminiere e scheletri di fabbriche. E, guardandoci diritti in faccia, ci accusano. Difficile girarsi dall’altra parte per evitare i loro occhi, perché di fronte a loro siamo tutti responsabili dello scempio ambientale e sociale che nel corso di un secolo siamo riusciti a creare. Sono interessanti, quanto inedite, le modalità iconografiche scelte dall’artista per affrontare la tematica del lavoro. In queste pagine pittoriche quest’ultimo è evocato esclusivamente dagli edifici che nel corso di un secolo lo hanno ospitato, così come la presenza degli operai è sottintesa ma mai esplicitata. Anche in questo contesto Zakamoto si conferma come un pittore realista che tuttavia non rispetta volutamente i canoni di questo genere di pittura. Akira non urla apertamente la sua denuncia nei confronti della società contemporanea, ma la sublima e, sublimandola, indirettamente la condanna. Sono opere di forte e immediato impatto visivo, in cui i toni scuri e scabri giocano di felice contrappunto cromatico con i rossi delle magliette dei bambini, che richiamano significativamente le lamiere delle fabbriche. Osservando queste sue tele ci accorgiamo che tutto è esattamente al posto giusto, non c’è nulla di troppo o che disturbi la vista, nessun descrittivismo superfluo volto solo ad ammiccare l’osservatore e riempire lo spazio. Come sempre l’artista riesce a dosare con sapienza le assenze e le presenze, caricandole di significato. Ma proviamo ora a cambiare punto di vista e guardiamo queste composizioni pittoriche da un’angolazione diversa. Ci accorgiamo che nulla in realtà è completamente concluso e che esiste uno spiraglio di speranza: i cieli grevi e cinerei, lasciano spazio a scampoli di azzurro che aprono la visuale su un futuro che può e deve essere diverso. Se Zakamoto non avesse voluto concedere, e concederci, una possibilità di riscatto, avrebbe lasciato che a parlare fossero solo i profili degli edifici industriali. Ma qui i veri protagonisti sono i bambini che, per assunto, sono la promessa e la speranza del futuro. Sono loro che distruggendo senza pietà il passato ci offrono la possibilità di costruire le fondamenta per un domani diverso e migliore. Dunque Porto Marghera altro non è che l’emblema di un secolo che ha cambiato radicalmente l’economia e la società, calpestando spesso i diritti dell’uomo e le singole individualità. Il bambino che ci guarda con un sorriso beffardo nell’opera La fine del lavoro, è in realtà il punto di partenza da cui ricominciare. Perché ogni fine presuppone sempre un nuovo inizio.

STEFANIA BISON
SULLE SPALLE DEI GIGANTI
Il mondo visto da Akira Zakamoto Nei soli artisti si sa che la vita adulta è la continuazione naturale dell’infanzia, per questo si dice che gli artisti sono grandi fanciulli. Alberto Savinio Del primo incontro con Akira Zakamoto ricordo senza dubbio il mio malcelato tentativo di scorgere sul suo volto qualche reminiscenza di fisionomia orientale: nulla di fatto, Akira non è giapponese, nè ha nel suo albero genealogico antenati provenienti dalla terra del Sol levante. Leggendo poi la sua biografia, che lo racconta rapito dagli extraterrestri, mi ero chiesta con una certa curiosità che tipo di pittura potesse fare. Mi capita spesso di cercare di intuire dopo aver conosciuto un artista, il suo tipo di pittura. Bambini, tanti, colti nelle loro espressioni più naturali, ma anche e soprattutto in quelle più incredibili. No, non mi sarei aspettata che Akira dipingesse, non solo, ma principalmente, bambini. L’infanzia vive dentro e accanto a ognuno di noi, nonostante sia una dimensione, l’unica, dalla quale siamo tutti, irrimediabilmente, esclusi. È un universo multiforme, affascinante, ma al tempo stesso ignoto e misterioso. Sollecita da secoli l’attenzione e la creatività di filosofi, poeti, scrittori e artisti, è un viaggio a rebours a cui pochi hanno saputo resistere, e che ognuno di noi, in forme diverse, almeno una volta nella vita ha tentato di intraprendere. Forse perché rappresenta, al tempo stesso, il nostro passato e un nostro possibile futuro. Affascinante, senza dubbio. Inquietante, senza dubbio. La realtà è che l’infanzia guardata da lontano si tinge sempre di un sentimento di intensa malinconia, perché è il mondo perduto, e rappresenta soprattutto un modo di sentire, vedere, toccare, unico e irripetibile, di cui l’età adulta ha perduto la diretta conoscenza. Dei bambini invidiamo lo stupore con cui guardano le cose, con cui cercano di indagare il mistero della vita. Ingenui? No, tutt’altro. E le tele di Zakamoto ce lo dimostrano. Dimentichiamoci le teste bionde e le forme deliziose degli amorini. I bambini di Akira sono dei veri e propri giganti – non solo nella statura – depositari e portatori di una saggezza antica e al tempo stesso ancora in divenire. Ed ecco dunque che noi adulti siamo i nani sulle spalle di questi bambini-giganti, e arrampicati su di loro abbiamo la possibilità di guardare oltre. Oltre il visibile, oltre il tangibile. Oltre tutto ciò che ci lega, e obbliga, al presente. Non lasciamoci tuttavia ingannare dalle tele di Zakamoto. Perché a dispetto della loro essenzialità costruttiva sono portatrici di messaggi non immediatamente, e facilmente, decodificabili. E per essenzialità intendo l’equilibrio pulito e lineare che domina ogni sua pagina pittorica. Osservando una sua opera non tardiamo ad accorgerci che tutto è esattamente al posto giusto, che non c’è nulla di troppo o che disturbi la vista, non esistono descrittivismi inutili e superflui volti solo a riempire lo spazio. Assenze e presenze sono dosate sapientemente dalla mano di un artista a cui, a mio avviso, non interessa piacere a tutti i costi. Akira ha assimilato la storia dell’arte del Novecento e contemporaneamente sembra averne fatto tabula rasa. Le sue opere non hanno un passato – e dunque è inutile cercare citazioni e collegamenti con esso – ma hanno un presente che vive e grida prepotente in ogni singolo dettaglio. Consideriamo dunque Zakamoto come un pittore realista dei nostri tempi, che non urla la sua denuncia nei confronti della società contemporanea, ma la sublima e, sublimandola, indirettamente la condanna. Sovverte il mondo che conosciamo, cambiando i rapporti di forza tra le cose: ci porta per mano in un mondo lillipuziano in cui le case diventano improvvisamente piccole e i bambini dei giganti che, non casualmente, quasi sempre ci voltano le spalle. Ci porta su una spiaggia in cui un gruppo di donne mature sono sovrastate dalla figura gigante di una bambina vestita con la bandiera cinese che emerge dal mare e corre veloce verso la riva: ecco la sublimazione della realtà, che assume tuttavia i contorni di un monito e di un avvertimento su quello che il futuro ci potrà riservare. Ma il suo è anche il mondo in cui Agnese magicamente si perde fra le nuvole, in cui Matteo – fanciullino ed eroe allo stesso tempo – è un Superman che si riposa dalle fatiche di tenerci sulle spalle. Il suo è il mondo che possiamo vedere attraverso lo sguardo del bambino che speranzoso, e con il sacchetto della merenda in mano, inizia il suo primo giorno nel futuro. Ed è un mondo che, nonostante tutto, ci riempie di speranza e ci piace.

PAOLO LEVI
Le storie infinite nella rappresentazione di Zakamoto
Verrebbe spontaneo definire di taglio concettuale queste ricerche d’ambito figurativo. Ma, a mio parere, è sin troppo facile: Zakamoto è, soprattutto, pittore di visioni elaborate a tavolino, che riportano un messaggio ben mirato. Ci si avvede subito che in ogni contesto di espressività narrativa, egli tende alla perfettibilità dell’esecuzione, nulla concedendo all’errore, sia dal punto di vista formale che della stesura cromatica - cose che in pittura sostituiscono, nella più assoluta emblematicità, la parola. Sono queste certamente situazioni immaginifiche perfettamente consone alla nostra epoca, dove tutto è costantemente rimesso in gioco, stravolgendo le premesse di un futuro che, in questi dipinti talentuosi, è rappresentato come trepidante speranza nei tratti di molti bambini. Perché il presente appare qui senza passato, presentato da personaggi la cui storia ha radici incerte, nati spesso nei fumetti, nelle pagine della cronaca, o nella narrativa popolare; effigiati in modo impeccabile, sono sempre rivisitati e aggiornati nella loro carica leggendaria con intenzioni etiche, sostenuti da didascalie che ne sono solo di parziale rivelazione. È in questo contesto che agisce la concettualità di Zakamoto: un artista che, a suo modo, va considerato un neoromantico. La sua narrazione del tutto originale affronta le tematiche del macrocosmo sociale contemporaneo con fredda determinazione, con raffinatezza esecutiva, tramite un segno di esecutivo ineccepibile; in queste pagine pittoriche la scelta e la stesura dei colori elegantemente atonali sono giocate in un sapiente dialogo contrappuntistico, in sonorità visive portatrici di incertezze Le sue radici museali sono quelle della Pop Art italiana la cosiddetta Scuola Romana del secondo Novecento, dove Zakamoto conduce comunque un viaggio del tutto libero e personale, privo di paletti intellettuali prefissati, tendendo, pur nel contesto immaginifico che si è imposto, alla più assoluta oggettività. Tuttavia, con questo suo modo di procedere, sarebbe sbagliato considerarlo un artista freddo, anzi: guidato dalla sua poetica, egli riesce a esplorare i suoi spazi interiori senza cadere nell’utopia, ma consegnando messaggi disillusi e interrogazioni puntuali, dove le apparenze visive del suo e del nostro vivere si coniugano con la concretezza del colore.

CARLO GAVAZZI
Akira ha messo (definitivamente?) in garage le astronavi e in soffitta le isole volanti, lasciando come uniche concessioni al passato le stelline e qualche mondo che esplode: si è tutto concentrato sul volto dei bambini, dai lattanti senza nemmeno il primo dentino fino alle soglie dell’adolescenza. C’è talmente tanto mistero in un viso di bimbo che non viene più voglia di andarlo a cercare altrove. Come sempre, ciò che il visitatore osserva non è tutto, poiché il nostro artista sente il bisogno di accompagnare le immagini con parole che ne sintetizzino il significato: tale scritto è stampato sul pieghevole della mostra, piccolo ma curatissimo oggetto cartaceo che nell’equilibrio grafico fra visi infantili, mondi in disintegrazione e parole è davvero di rara bellezza. Akira sa non solo dipingere ma anche scrivere, e il messaggio che vuole trasmetterci con le parole è un’amplificazione, o meglio un’esegesi (personale ma non distorta) di ciò che disse Gesù circa i bambini e la necessità di esser come loro, perché a chi è come loro appartiene il regno dei cieli – il quale regno, ammonisce lo stesso Maestro, non è da cercarsi altrove, nell’amletico “paese non ancora scoperto dai cui confini nessun viaggiatore ritorna”, bensì quaggiù, fra noi. Per scoprirlo bisogna avere occhi e guardare nella direzione giusta. Una possibilità è proprio quella di fissar negli occhi un bimbo e, più che non leggergli dentro, lasciare che sia lui a leggere noi. È quanto suggerisce la mostra. Il modo di rappresentare gli occhi infantili da parte di Zakamoto ha raggiunto negli ultimi dipinti una raffinatezza ed efficacia ammirevoli, pur con mezzi semplici: tirando ancora in ballo il Cristo, la lucerna del tuo corpo è l’occhio, e se il tuo occhio è nella luce tutto il tuo corpo sarà nella luce. Come il volto rappresenta per Akira la parte per il tutto ed è più che sufficiente a sintetizzare un intero corpo umano, così a sua volta l’occhio basta da sé a far vivere e caratterizzare il viso. Il bambino è tutto d’un pezzo: se è triste non è solo triste, è disperato, se è allegro sprizza una gioia travolgente da tutti i pori; non può né vuole dissimulare i sentimenti, dalla paura alla curiosità, dall’attesa alla perplessità. Akira, padre di bimbi, lo sa bene e altrettanto bene lo rende nei suoi quadri. Anche nei due casi in cui si concede il vezzo di coagulare l’alternarsi di luci ed ombre sul viso del piccolo in macchie che hanno il profilo dell’America: non è detto che l’osservatore se ne accorga subito.... Quasi inevitabile, a questo punto, scegliere un volto infantile di Zakamoto per fissare (e attirare) il possibile lettore di un libro sui bambini indaco quale L’avventura indaco – cristallo di Celia Fenn: ne esce una copertina indovinata e accattivante, che fa presagire per il nostro un futuro ricco di soddisfazioni anche come illustratore. Magari non solo di copertine, e non solo per un pubblico adulto: un libro per l’infanzia pieno di bimbi zakamotiani anche nelle pagine interne verrebbe benissimo…

ROSANNA DELL'UTRI
Le roccaforti del sogno
Il potere dei sogni. Così meravigliosamente smisurato, il potere dei sogni, da suggerire fiabe all’orecchio omerico di cantori di ogni dove, da sublimare l’essere alla dimensione semi-divina che tutto concede e può. Può creare, vivere di un’intensità millenaria, modellare paesaggi mentali in cui i protagonisti si alternano ma condividono, sempre, un non spazio, in cui l’unico escluso è il reale. E quando a sognare sono i pittori, con la netta volontà di raccontarli i sogni, attraverso linguaggi espressivi che conducano lo sguardo dell’estraneo fin dentro la natura dell’onirico, allora si assiste a un miracolo. Di chi trasforma in segno ciò che per gli altri rimane astratto, di chi dà forma e sfumature al sogno, di chi racconta una favola intrecciata alle pennellate, che ad ogni cambio di colore si gira pagina. Akira Zakamoto. Arte dai colori brillanti, la sua, su supporti quadrati, sempre della medesima dimensione, e gli elementi ritornano, puntuali, poiché suoi intimamente, come un sogno familiare che ricorre e non sorprende, accogliente nel circolo delle visioni; l’artista sembra trasporre sulla tela il negativo di miraggi notturni, fotografati nell’istante della rivelazione che apre gli occhi, anche nel sonno. Pittura senza filtri, varco nella mente nella piena fase allucinata in cui la visione si manifesta trepidante e vera. E così eccole, le stelle che illuminano, le pietre sospese nel vuoto, astronavi che brillano di scie vivifiche in una dimensione che nulla ha di reale. E in primo piano, con lo sguardo fisso in quello dell’osservatore, volti di angeli mostrano la via del possibile, indicando l’isola dell’eterna beatitudine, il pianeta su cui l’uomo troverà salvezza, sempre viaggiando, personale esodo. C’è un universo pieno nelle tele dell’artista e dietro le immagini, vivide, una filosofia dell’esistenza che traspare e si manifesta attraverso quadri-racconti ricchi di segni, allusioni, trame che mai si esauriscono alla sola occhiata fugace. Il pittore torinese dal nome orientale imposta la sua pittura, tutta, sul senso di un contatto con un altro mondo, ponte che attraverso la deliziosa ignoranza di bambini-Maestri e di creature angeliche ancora non contaminate, permette all’uomo di atterrare nel non-luogo, dove la bellezza può essere assaporata e colta, in una dimensione priva di condizionamenti. Anche per Zakamoto, come per Palumbo, è Utopia. Quando due pittori si uniscono nel segno dell’onirico si assiste a un miracolo, dicevamo. Si assiste alla costruzione di un’inespugnabile fortezza del sogno, alla volontà di delineare marcati i confini di un limbo in cui la creazione è condivisa e il passaggio verso il non-luogo è offerto e raccontato. Ed è questa la storia che in una torre a Rivoli verrà narrata a settembre, attraverso l’esposizione di dipinti i cui differenti linguaggi Palumbo-Zakamoto parleranno della stessa visione altra. La Torre della Filanda, dal 23 settembre al 1 ottobre diviene infatti luogo sacro in cui dipinti e realtà indefinibili, al limite tra arte visiva e uditiva, coinvolgeranno il pubblico in un viaggio percettivo dalle sfumature sonore e tattili. Dove gli angeli di Zakamoto vivranno, sorridenti, tra le rocce delle isole di Palombo, nelle intoccabili Roccaforti del sogno.